La nostra Costituzione, la legge fondamentale del nostro stato, tutela il lavoro in varie forme e modalità, sia negli articoli che negli atti legislativi, qui ne riportiamo alcuni :
Articolo 1
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Si definisce la forma dello Stato, la Repubblica la cui sovranità è nelle mani dei cittadini, che la esercitano secondo le leggi e nei modi costituzionali. Viene sottolineato il valore e l’importanza del lavoro per il cittadino.
La democrazia può essere:
- diretta: con il referendum, il popolo governa direttamente
- indiretta: il popolo elegge i rappresentanti che creano le leggi e le normative.
Articolo 4
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Si sottolinea l’importanza del lavoro che è sia diritto che dovere. Lo Stato ha il dovere di garantire e promuovere le condizioni a ogni singolo cittadino per lavorare. Ogni individuo, ha il dovere e diritto morale di avere un lavoro o un’attività, secondo la propria scelta e opinione, per contribuire al progresso dell’intera società.
Titolo 3 – I RAPPORTI ECONOMICI
Articolo 35
L’onorevole Meuccio Ruini (socialista, iscritto al Gruppo Misto) introduce un titolo ai rapporti economici per proteggere il lavoro e per promuovere accordi internazionali, per le conquiste e la regolazione dei diritti del lavoro, tutelando l’emigrazione e l’abolizione dei vincoli internazionali alla libertà di trasferimento dei lavoratori. Viene introdotta, quindi, la «Costituzione economica» e il principio del governo di curare la formazione e la crescita professionale dei lavoratori, la promozione di una legislazione sovranazionale del lavoro e la firma di accordi che permettono ai lavoratori italiani pari trattamento retributivo e garanzie sociali rispetto ai cittadini dei paesi ospitanti.
Articolo 36
Ci fu un dibattito tra le politiche di destra che criticarono l’affermazione che le retribuzioni avessero dovuto essere commisurate alle esigenze familiari dei lavoratori e proposero, senza successo, di adeguarle in base alle possibilità dell’economia nazionale, e tra i deputati comunisti che si opposero alla retribuzione in base di qualità o quantità. Al contrario, l’on. Amintore Fanfani (Democrazia cristiana) difese la formula per dare la possibilità ai lavoratori di ottenere promozioni.
L’art. 36 si occupa di tutelare il lavoratore con la retribuzione che deve essere sufficiente a garantire una vita dignitosa, stabilendo la durata massima della giornata lavorativa e affermando il diritto al riposo che è irrinunciabile e necessario. Si prevede, dall’ordinamento giuridico, che non sia possibile sostituire il periodo di ferie con un’indennità economica.
Articolo 37
Con l’art. 37 si prevedono garanzie per le donne e i minori.
Per le donne lavoratrici, l’on. Aldo Moro (Democrazia cristiana) affermò il bisogno di tutelare e proteggere l’integrità morale e sociale della donna con le sue difficoltà. L’on. Bruno Corbi (Partito comunista italiano) sostenne i minori, dichiarando che la legge del 26 aprile 1934 sul lavoro minorile fosse «la più arretrata fra quelle esistenti». Si afferma, quindi, la piena uguaglianza formale tra lavoratori e lavoratrici, vietando qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, e sostenendo
il raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale. La legislazione vieta il lavoro dei bambini (fino ai quindici anni di età) e consente quello degli adolescenti (fra i 15 e i 18 anni), sebbene il minore sia riconosciuto idoneo all’attività lavorativa attraverso un esame medico e permettendo la frequenza scolastica fino al diciottesimo anno di età.
Articolo 38
La formulazione dell’art. 38 fu molto dibattuta. Una parte non voleva che lo Stato si impegnasse al mantenimento dei cittadini. Si sottolineò, però, l’obbligo dello Stato ad assicurare un livello dignitoso di vita agli inabili al lavoro e quei cittadini che si trovano a vivere condizioni di debolezza sociale ed economica. Sono presenti due canali di attuazione: l’assistenza e la previdenza. Il diritto all’assistenza è disciplinato dalla legge n. 328 del 2000 che lo definisce un sistema integrato destinato a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà delle persone fragili. Per la previdenza, nel 1969 si istituì la pensione sociale (oggi assegno sociale) a totale carico dello Stato e destinata alle persone con più di 65 anni di età con redditi inferiori ai limiti stabiliti dalla legge, con degli accantonamenti da parte dei lavoratori.
Articolo 39
L’Assemblea costituente approvò il testo dell’art. 39 per evitare che i sindacati potessero nuovamente essere sottoposti a un rigido controllo statale, così come era avvenuto durante il regime fascista come ribadito dall’on. democristiano Lodovico Benvenuti. Si fece conciliare la piena libertà sindacale (cioè l’esistenza di più organizzazioni sindacali in concorrenza fra di loro) con il principio della rappresentanza unitaria in proporzione al numero degli iscritti (che tende a favorire l’organizzazione avente il numero maggiore di individui).
La «libertà sindacale», quindi, rappresenta una garanzia costituzionale per le organizzazioni sindacali e per i lavoratori. Sono vietati, infatti, i sindacati misti (in un’unica organizzazione sia gli imprenditori che i lavoratori) e i sindacati di comodo (quelli costituiti con il contributo determinante dei datori di lavoro).
Esistono, inoltre, dei limiti soggettivi per alcune categorie di lavoratori per esempio i militari e gli appartenenti alla Polizia di Stato, in base alle loro funzioni lavorative.
Articolo 40
Una parte dei costituenti era favorevole a non inserire il diritto di sciopero nella Carta costituzionale, ma a limitarlo alla legge ordinaria e un’altra parte era propensa a negare il diritto di sciopero. In modo particolare, contrari allo sciopero dei lavoratori pubblici, come sostenuto dall’on. Edoardo Clerici (Democrazia cristiana) perché non si voleva compromettere i servizi essenziali alla vita collettiva. In risposta, l’on. Umberto Merlin (Democrazia cristiana) propose la formulazione definitiva quasi copiata dal preambolo della Costituzione francese del 1946.
Si riconobbe, dunque, il diritto di sciopero individuale e collettivo rivolto ai lavoratori subordinati, ai dipendenti pubblici e ai “soggetti contrattualmente deboli”. Si esclude, però, il diritto di sciopero per i liberi professionisti e con delle limitazioni per i militari, gli appartenenti alla Polizia di Stato e a quella penitenziaria.
Di conseguenza, si dichiararono illegittimi gli articoli del Codice penale approvato dal regime fascista nel 1930 (il Codice Rocco) che puniva severamente lo sciopero per ottenere o impedire un intervento nel mondo del lavoro subordinato.